Lo stato dell’industria italiana
Riflettere oggi sullo stato dell’industria italiana significa partire dall’evidente stagnazione della piccola impresa nella parte più sviluppata del Paese. Innanzitutto, come va l’economia italiana? Nonostante la grancassa governativa, direi male dato che da ventitré mesi l’indice di produzione industriale continua a scendere, determinando un periodo di declino che non ha precedenti, nemmeno nella drammatica crisi del 1975, né nel periodo del Covid, e neppure in quel 2008 che ha segnato la vera svolta nell’economia mondiale, aprendo per l’Europa un periodo di stagnazione ancora non conclusosi. D’altra parte il boom della borsa, i superprofitti del settore bancario e i prezzi degli immobili alle stelle testimoniano che siamo finiti dentro ad un’economia della speculazione e delle rendite, non certo in un’economia della produzione e del lavoro, un lavoro del resto che in Italia vede i salari assestati molto sotto la media europea, ai minimi rispetto ad ogni altro grande paese occidentale.
“Piccolo è bello” è la dichiarazione un po’ consolatoria emersa nei primi anni settanta quando la grande impresa fordista mostrava tutte le sue crepe. Fino a quel momento la storia italiana del Dopoguerra aveva visto una rapida crescita tutta concentrata in un triangolo fra Torino, Milano e Genova, attorno ad un nucleo ristrettissimo di grandi imprese rigidamente dominate da famiglie storiche, sorrette da acquiescenti imprese pubbliche fornitrici di materie prime, intermedi e servizi. Solo Mattei e Olivetti sfuggivano a questa rigida maglia di ferro ed entrambi nei primi anni sessanta scomparvero da quella scena blindata.
Quando economisti come Prodi, Becattini, Fuà, Brusco cominciarono ad esplorare il mondo al di fuori di Mirafiori fu come un’ondata di aria fresca, che investiva un’Italia contadina e dimenticata dal “miracolo economico” e che invece portava in serbo mille opportunità, se – e questo è il punto- il territorio diveniva esso stesso il collante di uno sviluppo, garante di innovazione, crescita ed equità. Si scoprì così che nel nostro Paese vi erano aree di forte specializzazione produttiva, che disponevano di imprese di piccola dimensione ma fortemente specializzate, che in un contesto di altrettanto forte complementarietà ritrovata in uno stesso territorio, sviluppavano prodotti di alta qualità, da vendere in tutto il mondo.
Si scoprì però anche che quel modello di specializzazione territoriale – per intenderci l’economia dei distretti industriali - richiedeva nel tempo massicci investimenti, per consolidare un tessuto industriale intrinsecamente fragile. Era quindi necessaria un’azione di politica industriale di territorio, che potesse accompagnare nuclei produttivi, nati largamente in modo spontaneo, verso una trasformazione adeguata ad un mercato mondiale, che a cavallo dei due secoli si sta globalizzando, con l’entrata della Cina, ma anche con l’esplosione delle grandi imprese big tech, sempre più dominanti nei settori chiave delle connessioni di rete. In altre parole era necessaria un’azione a vasto raggio di politica industriale per spingere i capifila a crescere dandosi una struttura organizzativa, finanziaria, proprietaria da grande impresa, in grado di confrontarsi con i leader che si stavano affermando a livello internazionale. Nel contempo era necessario permettere a tutto il sistema produttivo locale di rafforzarsi e compattarsi con le strutture di ricerca ed universitarie, così da accelerare i percorsi di innovazione con cui misurarsi nel contesto globale.
Queste riflessioni si legano indubbiamente all’esperienza personale: dopo essere stato per molti anni Rettore dell’Università di Ferrara, nel 2010 venni chiamato a svolgere il compito di Assessore a formazione, scuola, ricerca, università e lavoro della Regione Emilia-Romagna, ove rimasi fino al 2020, dopodiché venni indicato da Mario Draghi come Ministro dell’Istruzione nel suo governo, ove molto mi avvalsi dell’esperienza emiliana.
In Regione dovetti affrontare il terremoto che sconvolse la regione nel maggio del 2012 e riportare i bambini a scuola, aprendo però con tutte le forze della nostra comunità regionale una riflessione sul ruolo della scuola, sulla sua organizzazione, sul suo futuro, in una società che doveva riprendere a crescere mantenendo forti i suoi caratteri di equità nello sviluppo.
Ne scaturì un Piano per il Lavoro, che delineava una chiara linea di politica industriale condivisa con tutte le forze sociali, basata su tre riferimenti principali. Questa linea richiedeva innanzitutto un forte investimento in formazione professionale e tecnica, con la creazione di Istituti tecnici superiori, in cui far convergere le conoscenze e le esperienze più avanzate di tutto il nostro settore manifatturiero.
Il secondo riferimento era la ricerca svolta dalle nostre università e dai centri di ricerca pubblici e privati, favorendo il suo trasferimento nelle attività più avanzate di formazione e di produzione; su questo riferimento venne avviata ed ancora è ben attiva la Motorvehicle University of Emilia-Romagna – MUNER, che riunisce le università della regione e le principali imprese del settore automotive - Ferrari, Lamborghini-Ducati, Dallara ed i componentisti - formando i tecnici di un comparto che tuttora sta crescendo.
Il terzo riferimento riguardava però la necessità di andare oltre l’esistente, investendo massicciamente in un tecnopolo che riunisse le capacità di supercalcolo scientifico in un centro, che potesse nel tempo divenire riferimento per una nuova industria fondata sulla ricerca ed il digitale.
Abbiamo riportato i bambini a scuola dopo il terremoto, abbiamo avviato la riforma della formazione tecnica regionale, abbiamo dato il via al tecnopolo big data che ora detiene la maggior potenza di calcolo d’Europa, divenendo il perno del sistema big data dell’Unione. Tutte esperienze che tuttavia valgono se proiettate a livello nazionale ed europeo, facendo del territorio non la ridotta di una difesa generosa dell’esistente, ma il perno di una nuova visione aperta ed inclusiva.
In quel tempo in Emilia-Romagna abbiamo disposto un’azione di politica industriale, che aveva come obiettivo compattare le filiere produttive, mantenere sul territorio regionale, ma anche attrarre dall’esterno, le funzioni strategiche di imprese nazionali e multinazionali operanti nell’automotive, nel packaging, nel food-processing, new materials , cioè nei settori in cui misurarsi a livello internazionale da parte di un sistema produttivo, che riteneva di dover sfuggire alla trappola del nanismo industriale.
Questa azione, avente il suo punto di definizione, convergenza e partecipazione nel citato Patto per il Lavoro, agiva contestualmente su tutti e tre i riferimenti sopracitati- accelerazione nei processi formazione delle risorse umane, forte spinta all’incrocio e trasferimento della ricerca, anche creando strutture ibride università-impresa, creazione di grandi infrastrutture di supercalcolo - riferimenti tradottisi poi in concreti atti ed istituzioni tuttora operanti e tali da posizionare la manifattura della regione – sia pure in un contesto nazionale negativo, in condizione di forza a livello internazionale.
Le nuove politiche industriali di territorio debbono riuscire a sostenere la crescita delle imprese, fortemente innovando, ma rafforzando il carattere solidale del territorio. Questo l’obiettivo per uscire da questa fase così negativa e densa di nubi per il futuro di tutti noi.
Certamente ogni territorio ha la sua storia e le sue storie, ma in una fase così incerta e pericolosa, diviene necessario ripartire dai valori fondanti della nostra Costituzione che pone il lavoro alla base della nostra stessa democrazia e che subito, all’articolo 2 ci ricorda che la Repubblica garantisce i diritti inviolabili della persona, ma richiede il dovere inderogabile della solidarietà. Lavoro, diritti, solidarietà. Da qui ripartire per un nuovo sviluppo economico, sociale e civile, per una nuova Europa democratica e di pace.
Patrizio Bianchi