Covid-19, una malattia vascolare | Lezioni dall’esperienza italiana sul campo
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Una malattia del sistema vascolare. Così può essere considerato il Covid-19, alla luce dei dati raccolti negli ospedali italiani durante i primi mesi della pandemia da coronavirus.
Ad argomentare questa tesi in un articolo da poco pubblicato sulla rivista Diagnostics è il professor Paolo Zamboni, ordinario di Chirurgia Vascolare all’Università di Ferrara, direttore della Scuola di Specializzazione in Chirurgia Vascolare e direttore del Centro HUB Regione Emilia-Romagna per le malattie venose e linfatiche.
“Fin dal principio dell’epidemia di coronavirus ci si è concentrati sugli effetti del SARS-CoV-2 sul sistema respiratorio. È vero, la via di diffusione del virus è respiratoria, e la polmonite interstiziale rappresenta l’insediamento del coronavirus nel nostro organismo. Ma ora possiamo affermare che il bersaglio mortale del virus sono le cellule del sistema vascolare” spiega Zamboni.
A supporto di una tesi apparentemente così sorprendente, vengono prese in rassegna le analisi istologiche ed immunoistochimiche svolte sui tessuti degli organi di chi ha contratto il SARS-CoV-2. Esse dimostrano con chiarezza che il virus è in grado di infettare le cellule endoteliali, ovvero il naturale rivestimento del sistema vascolare, non solo dei polmoni, ma anche a livello di cuore, reni, cervello, fegato e intestino. La cellula endoteliale infettata verosimilmente non svolge più le sue funzioni protettive anticoagulanti, e induce fragorose reazioni infiammatorie.
“Questi dati permettono di spiegare alcuni sintomi e quadri clinici apparentemente misteriosi descritti nei primi rapporti sulla pandemia di Covid-19. Infatti, le autopsie o le biopsie sulle vittime hanno costantemente messo in luce non solo trombosi a livello microcircolatorio, ma anche a livello dei grandi vasi con frequenti e diffuse trombosi venose profonde, tromboembolia, infarti cardiaci e renali ed ischemie periferiche. Il coinvolgimento centrale delle cellule endoteliali spiega perché i pazienti con malattie cardiovascolari preesistenti sono particolarmente a rischio di morte” aggiunge Zamboni.
“D’altro canto, gli esami del sangue eseguiti sui pazienti infettati dal virus hanno mostrato qualcosa di molto interessante: l’alterazione di alcuni marcatori del coinvolgimento del sistema cardiovascolare, come il D-Dimero e la troponina, si sono rivelati i più potenti marcatori prognostici del rischio di morte. Ciò potrebbe suggerire, per contrastare la azione del virus, di utilizzare terapie già in uso per le malattie cardiocircolatorie” spiega il professore.
Un esempio su tutti è l’eparina, il farmaco anticoagulante che già dallo scorso aprile è stato utilizzato in maniera sperimentale sui pazienti Covid-19.
L’eparina si comporta come un’esca nei confronti del coronavirus: “attira” la proteina spike, che permette al virus di fare ingresso nelle cellule umane. In seguito al legame con l’eparina, la conformazione della proteina spike viene modificata, e così il coronavirus non riesce più ad entrare nelle cellule umane. Inoltre, l’eparina è in grado di prevenire il processo tromboembolico. Ecco che diventa chiaro il doppio ruolo protettivo di questo farmaco - confermato nella pratica clinica - come arma terapeutica contro il coronavirus” conclude il professor Zamboni.
Nel paper il professore cita alcune delle criticità che hanno caratterizzato la gestione clinica dell’epidemia nel nostro Paese, e non solo, tra cui la scarsa accuratezza diagnostica dei tampone orofaringeo tuttora inspiegabilmente considerato infallibile, e la variabilità nel tempo dei test immunologici.
Emerge la necessità di disporre di test più rapidi e sensibili per regolare l'accesso negli ospedali e nei reparti chirurgici, soprattutto nelle situazioni di emergenza, il professore parla dell’enorme potenziale dell’imaging mirato con l'ecografia polmonare.
“Rispetto alla TC toracica e al tampone orofaringeo, l’ecografia offre molti vantaggi. E’ meno costosa, ha un ottimo rapporto tra sensibilità e specificità e non espone le persone a radiazioni. Per questi motivi è un ottimo strumento sia per diagnosticare la polmonite interstiziale sia per monitorare lo stato di salute del personale tecnico-sanitario che lavora a stretto contatto con i contagiati.
Il professor Zamboni auspica che si faccia tesoro dell’esperienza maturata durante la prima ondata di contagi e che si investa sullo sviluppo di programmi educativi in e-learning per allargare la platea di professionisti in grado di eseguire l’ecografia polmonare.
Articolo originale:
Per saperne di più:
di CHIARA FAZIO