Malattie mitocondriali | Da studio Unife nuove strategie terapeutiche per una rara neuropatia ottica
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Nuova luce sui meccanismi molecolari che causano la neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON), malattia genetica rara del nervo ottico che causa l'improvvisa perdita bilaterale della vista e colpisce 1 persona su 50.000, prevalentemente maschi in età giovanile-adulta (15-30 anni).
Le mutazioni che causano la neuropatia ottica ereditaria di Leber sono state ben caratterizzate da diversi anni, ma restano ancora sconosciuti gli esatti meccanismi molecolari che determinano la morte delle cellule ganglionari retiniche e la conseguente perdita della vista. A chiarire tali aspetti ora è lo studio condotto presso il Signal Transduction Lab del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Ferrara, guidato dai Professori Paolo Pinton e Carlotta Giorgi coadiuvati dai ricercatori Alberto Danese e Simone Patergnani.
"La neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON), chiamata anche atrofia ottica di Leber è è dovuta a un difetto nel DNA mitocondriale, che è ereditato esclusivamente per via materna, per cui è trasmessa esclusivamente dalle donne.
La maggioranza dei pazienti presenta specifiche mutazioni a carico del DNA mitocondriale che colpiscono parti diverse di uno stesso enzima, definito come Complesso I, un componente essenziale della catena respiratoria mitocondriale. Questo enzima è responsabile del corretto funzionamento del processo metabolico attraverso cui viene prodotta la maggior parte dell’ATP cellulare, la fonte di energia che la cellula utilizza per tutte le sue funzioni vitali" spiega il Professor Paolo Pinton.
"La nostra ricerca dimostra come sia l’attivazione eccessiva di un particolare processo cellulare la causa della morte delle cellule ganglionari. Questo processo, denominato autofagia, è normalmente espresso dalle cellule ed è fondamentale per rimuovere e riciclare componenti cellulari potenzialmente dannosi e per permettere il ricambio degli organelli intracellulari, in particolare i mitocondri. Quando portata all’esasperazione, l’autofagia si tramuta in un evento tossico e pericoloso per la cellula, che può andare incontro a morte e causare la degenerazione del tessuto e anche dell’organo in cui risiede” continua il Professor Pinton.
“Tutto è iniziato mediante un’analisi preliminare fatta in biopsie cutanee ottenute da pazienti LHON, in cui abbiamo riscontrato livelli di autofagia eccessivi rispetto a campioni prelevati da individui sani.
Le successive e approfondite analisi condotte in modelli cellulari più complessi e affini alla patologia ci hanno permesso di confermare queste osservazioni e, soprattutto, di notare che nei pazienti interessati dalle medesime mutazioni nel DNA mitocondriale ma che non sviluppano la malattia, i livelli di autofagia erano molto simili a quelli degli individui sani” continua il Dottor Alberto Danese.
“Grazie a tutte queste osservazioni abbiamo potuto affermare che questa eccessiva attività autofagica fosse una caratteristica peculiare dei soli pazienti colpiti dal calo della vista e potesse essere un target terapeutico contro la patologia. Per questo motivo abbiamo testato diversi farmaci capaci di controllare questi sproporzionati livelli di autofagia osservati nei pazienti LHON, in modo da verificare se fosse possibile rallentare l’incalzante progressione della patologia preservando la vitalità e la funzionalità delle cellule ganglionari” ” aggiunge il Dottor Simone Patergnani.
“L’utilizzo dei composti farmacologici impiegati nel nostro studio hanno dato risultati sorprendenti e dimostrano come l’utilizzo di specifici inibitori del processo autofagico possa essere un valido approccio terapeutico per questa patologia etichettata ancora oggi come una malattia incurabile, senza prospettive di terapie.
Infine, è importante sottolineare come le molecole proposte nel nostro studio siano farmaci già presenti in commercio utilizzati per il trattamento di altre patologie, un aspetto che permette non solo di ridurre fortemente i costi di sperimentazione e sviluppo, ma soprattutto di velocizzare gli studi clinici sulla loro efficacia” prosegue la Professoressa Carlotta Giorgi.
“Il nostro lavoro rappresenta un’ulteriore prova di come la collaborazione tra gruppi di ricerca sia un aspetto fondamentale nel nostro lavoro.
Per ottenere gli importanti risultati di questo studio, il Signal Trasduction Lab, si è infatti avvalso della collaborazione di diversi gruppi di ricerca a livello nazionale (Bologna, Milano ed Ancona) ed internazionale (Polonia, USA e Brasile)” conclude il Professor Paolo Pinton.
Per saperne di più
I risultati dello studio sono stati pubblicati nell’articolo “Pathological mitophagy disrupts mitochondrial homeostasis in Leber’s hereditary optic neuropathy” su Cell Reports.