La Cattedra Unesco "Education, Growth and Equality" a livello internazionale

In questi mesi ho partecipato a diversi appuntamenti internazionali, ove ho portato la voce della Cattedra Unesco “Educazione, crescita ed eguaglianza” e della Rete delle Cattedre Unesco in Italia, avendo ben chiaro che il nostro compito principale come università ed istituzioni educative e scientifiche è di ricostruire quei percorsi di pace che sembrano essere perduti in questa fase storica. Ovunque in questi incontri a cui ho partecipato, dalla Polonia a Pechino, dall’Africa a Baku’ è emersa la necessità di una Europa unita, capace, propositiva, indipendente, che possa porsi in questo critico contesto mondiale come portatrice di pace e democrazia. La debolezza di questa Europa si sente a livello mondiale e il suo ripiegamento nei diversi sovranismi locali, sospinto da questo vento autoritario che spira dagli Stati Uniti, lede non solo la crescita economica del vecchio continente, ma anche la sua legittimazione internazionale.

33° Forum Economico dell’Europa Centro Orientale, Karpacz, Polonia

Nei primi giorni di settembre ho preso parte a Karpacz, in Polonia, al 33esimo Forum Economico dell’Europa Centro Orientale, avendo l’onore di prendere la parola in questa riunione, a cui hanno partecipato relatori da 60 paesi ed oltre sei mila fra economisti, operatori economici ed amministratori di quella Europa che fino alla caduta dell’Unione Sovietica era di là dal muro di Berlino. Oggi questa “Zwischen Europe” - i paesi storicamente compressi tra la Germania e la Russia- si trova schiacciata fra una guerra senza fine fra Ucraina e Russia e una crisi economica che coinvolge soprattutto quella Germania unita, che ha raffigurato in questi anni non solo il punto di riferimento, ma l’icona di una Europa ritrovata. Paradossalmente proprio la guerra alle porte e la debolezza della stessa Germania, ma anche della Francia, incapace di darsi un governo, e dell’Italia, dall’ambigua posizione sul futuro dell’Unione, aumenta il potere di questi paesi, a partire dalla Polonia di Donald Tusk, che qui a Karpacz si vuole presentare come il nuovo punto forte di sicuro riferimento per una Europa smarrita.

All’Unione Europea questi paesi guardavano con molta attesa, per ritrovare una democrazia, in realtà mai conosciuta veramente, ed una crescita economica, che permettesse di uscire da quell’aria di mediocrità quotidiana, che cinquanta anni di comunismo avevano imposto. D’altra parte proprio questi paesi, aventi forte tradizione industriale e una manodopera istruita, rappresentavano soprattutto per le imprese tedesche dell’automobile la nuova frontiera di una crescita, che trovava nella stessa loro domanda interna, la risposta alla rapida saturazione della domanda in Occidente.

L’introduzione dell’Euro e l’ampliamento ad Est, in una fase di globalizzazione rampante, confermavano il ruolo trainante che l’Europa poteva e voleva giocare a livello mondiale, proprio lavorando insieme sull’unificazione delle sue istituzioni politiche ed economiche, ma questo “Effetto-Unione” svanisce poco a poco, e dopo l’euro non si ha più il coraggio di andare oltre e quindi la crisi bancaria e finanziaria del 2008, nata negli Stati Uniti ma rapidamente diffusa in tutto il mondo, apre una fase di instabilità per questa Europa tornata a ragionare su base locale. Il Covid ha dato la battuta di arresto a tutti, ma la guerra in Ucraina, il blocco dei rapporti con la Russia e contemporaneamente l’embargo alla Cina ha posto in ginocchio soprattutto la Germania, che era divenuta lo snodo di queste relazioni est-ovest, con il conseguente rattrappirsi di tutto l’indotto. Così, questa “Zwischen Europe” sembra non credere più in questa Unione Europea, che dal 2008 non cresce più e non ha più l’ambizione di essere il perno di una nuova pace mondiale. Da qui, da Karpacz, sale allora un forte appello per nuovi leader, soprattutto ad Est, che siano in grado di disegnare un futuro al di là dello stallo, in cui visibilmente tutti siamo finiti e, nel contempo, respingere l’ondata di ultradestra nazionalista, che in questi paesi sta spingendo per soluzioni autoritarie ed antieuropee.

L’edizione di quest’anno del Forum assume una particolare rilevanza, in considerazione del fatto che proprio la Polonia dal 1 Gennaio 2025 assumerà la presidenza del Consiglio d’Europa. Al Forum vi è stata quindi una grande enfasi sul ruolo dell’università, come centro di formazione di queste nuove leadership, ma anche come incubatore di nuove soluzioni che possano aprire una stagione di crescita economica, ma anche di pace, in cui questi paesi possano davvero giocare quel ruolo stabilizzante ed anche quel coraggio che i paesi fondatori sembrano aver smarrito.

Da Karpazc sale quindi un grido di urgenza per ritrovare una Europa in grado di essere protagonista a livello mondiale, che contrasta con i lunghi tempi per giungere ad una Commissione pienamente attiva, in grado di attuare quella strategia che tanto Letta che Draghi stanno delineando con forza, e che possa riportare l’Europa ad avere insieme ambizioni e capacità commisurate a superare i tempi difficili che ci è dato vivere. I risultati di Turingia e Sassonia sono un campanello d’allarme che suona per tutta Europa, nessuno escluso.

Incontro fra Unione Africana e Unesco, Addis Abeba e G7 Ricerca, Trieste

Tra fine settembre e inizio ottobre ho partecipato a due importanti incontri internazionali aventi al centro il presente ed il futuro dell’Africa ed in particolare le sue relazioni di ricerca e di alta formazione con i paesi più avanzati. Dal 30 settembre al 2 ottobre ad Addis Abeba si è tenuto l’incontro fra Unione Africana ed Unesco, a cui hanno partecipato le 900 Cattedre Unesco operanti nel mondo. Lo stesso 2 ottobre, su questo stesso argomento, a Trieste si è svolto il G7, che ho avuto l’onore di aprire con una mia relazione. In questo G7 i Paesi che ancora si autodefiniscono Grandi- Stati Uniti, Canada, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Germania ed Italia- si sono incontrati con delegazioni africane per delineare strategie di cooperazione in queste delicate materie.

Avendo avuto la possibilità di essere relatore in entrambe le iniziative, ho avuto quindi l’onere di farmi portatore di quel sentimento, o meglio di quel bisogno di parità di relazione, che è oggi al centro di ogni possibile sviluppo di rapporto con questa nuova Africa. L’Africa è oggi certamente in una situazione molto critica, segnata da conflitti interni violentissimi, eredità di una decolonizzazione che seguiva gli stessi confini tirati a volte con riga e squadra dalle potenze europee, ma del tutto irriguardosi rispetto alle identità storiche, linguistiche ed etniche locali.

D’altra parte quando lo stesso Mario Draghi afferma che il futuro dell’Europa è legato a digitalizzazione e decarbonizzazione, bisogna ricordare che queste nuove tecnologie richiedono materie prime che sono largamente sotterrate in Africa e che al controllo di quelle stesse ricchezze naturali sono oggi rivolti gli interessi americani e cinesi, ben più presenti di noi in tutto il Continente.

Ad Addis Abeba Sahle-Work Zewde, prima donna alla Presidenza della Repubblica Etiope e tuttora unica donna al vertice di un paese africano, ci ha ricordato che il futuro dell’Africa è oggi soprattutto affidato al suo straordinario capitale umano, un mondo giovane in crescita, su cui però occorre che i paesi sviluppati ed i paesi africani investano insieme nell’interesse reciproco e nell’interesse ultimo del mondo intero, perché il mondo ha bisogno di pace duratura e di crescita sostenibile.

Questi sono stati i temi posti nell’incontro voluto da Unione Africana ed Unesco ad Addis Abeba, ma anche al meeting del G7 a Trieste, dove è risultato chiaro che questo nuovo rapporto con l’Africa può essere solo impostato ed accettato su una base effettivamente paritaria.

Ad Addis Abeba Sahle-Work Zewde, aprendo il Forum “Trasformare la conoscenza per il futuro dell’Africa”, ha posto al centro del suo potente discorso la necessità di investire massicciamente in educazione. Ha citato Mandela, padre nobile di questa nuova Africa, ricordando a tutti noi che l’educazione è l’arma più forte non solo per sradicare la povertà, ma anche per ridare dignità ad un intero continente, condizione necessaria per poter impostare su base di parità un nuovo rapporto con i paesi più sviluppati, ma anche con il resto dei paesi del Sud del Mondo.

In questo nuovo equilibrio l’Africa può essere un fattore di destabilizzazione perpetuo, o un elemento fondamentale per una crescita più equilibrata e rivolta ad affrontare insieme la più globale delle sfide, il cambiamento climatico, che non risparmia e non risparmierà in futuro nessuno, né a Nord né a Sud del Mondo.

In questa grande sfida per lo sviluppo e la pace, l’Africa- dichiara la Presidente Zewde- non accetta né vecchi né nuovi colonialismi, ma richiede parità e chiarezza di rapporti, specialmente sulla ricerca e l’alta educazione, ritenute chiavi strategiche della crescita ma anche dell’effettiva indipendenza africana. L’Unione Africana ha lanciato un’ambiziosa Agenda 2063, che comprende grandi progetti come la creazione di un mercato comune africano sia per le merci che per le persone, una rete network ed università virtuale che copra tutto il continente, un grande progetto unitario per la produzione idroelettrica, progetti complessi e molti dibattuti ma posti chiaramente sul tavolo del futuro del continente. Ed è in questo quadro prospettico, che è stata promosso dalla stessa Unione Africana il Secondo Decennio dedicato alla Ricerca e all’Alta Formazione, esplicitamente rivolto a sostenere la crescita degli atenei africani, ma anche a spingerli a cercare relazioni di scambio ed integrazione fuori dall’Africa.

Ad Addis Abeba, chiudendo la sessione del 1° ottobre su questo Piano Decennale dell’Unione Africana sullo sviluppo della scienza, ho potuto toccare con mano la determinazione e velocità con cui gli atenei africani, saltando tutte le tappe intermedie, si stanno concentrando sull’utilizzo delle tecnologie digitali, ed ora anche dell’intelligenza artificiale, per affrontare di petto le problematiche proprie di economie in rapida crescita, a partire dalla diseguaglianza interna fra aree urbane, in rapidissima espansione e zone rurali, a rischio di abbandono.

In questo contesto l’elemento che emergeva più chiaramente è stata la forte richiesta di questi atenei africani di stabilire nuovi rapporti con le università europee, evitando di rimanere schiacciati fra le università americane oggi dominanti e le università cinesi fortemente all’attacco, con proposte educative e finanziamenti di ricerca straordinariamente attrattive.

Il giorno dopo, 2 ottobre, io stesso ho aperto il dibattito a Trieste sulle politiche pubbliche per la cooperazione fra G7 e l’Africa nel campo della ricerca ed ho avuto la riprova di quanto i nostri vecchi paesi- l’Italia, la Francia, la Germania, il Regno Unito da una parte e gli Stati Uniti, il Canada e il Giappone dall’altra, sottovalutino la situazione africana, segnata dalla duplice penetrazione delle armi russe nei paesi subsahariani, e dei capitali cinesi nei restanti paesi.

A Trieste è emerso infatti come una visione delle trasformazioni strutturali, che stanno ridisegnando la geografia mondiale ed i relativi punti di forza, non possa più essere affrontata dalla sola prospettiva nazionale dei pur Sette Grandi. Pur apprezzando le azioni che i singoli governi stanno ponendo in campo per rilanciare la loro cooperazione con i loro partner africani- e fra questi certamente il Piano Mattei- occorrono azioni di sistema ben concertate, che portino a ritrovare la via del consenso fra tutti i paesi, necessità ancor più resa palese dalle evidenti difficoltà delle Nazioni Unite e delle sue articolazioni funzionali, di fronte a guerre che da locali possono espandersi mettendo a rischio la pace di tutti e che comunque stanno già segnando pesantemente l’economia mondiale, con il ritorno di sovranismi fuori tempo massimo.

Come ad Addis Abeba, anche a Trieste ho incontrato giovani imprenditori ed imprenditrici africane, operanti in particolare nel campo della salute, e che portavano con grande forza progetti concreti per una crescita duratura e sostenibile, ma che con eguale forza richiedevano l’attenzione proprio di un’Unione Europea distratta dalla sempre rinnovata ricerca di nuovi equilibrismi interni.

D’altra parte gli ambiziosi piani dell’Unione Africana, espressi dall’Agenda 2063, quindi di ben lungo periodo, traggono esempio esplicito proprio dalla storia dell’unificazione europea, in cui sviluppo e pace si sono dimostrati inscindibili in una visione di crescita sostenibile e duratura.

In questa prospettiva dinamica, quella larga parte dell’Africa, che non vuole rimanere schiacciata fra la crescente pressione finanziaria cinese ed il monopolio digitale americano, richiede all’Unione Europea di assumersi direttamente le responsabilità di una cooperazione paritaria con l’Africa e con tutto il Sud del Mondo, abbandonando una volta per tutte le derive protezioniste e sovraniste e svolgendo infine a pieno un ruolo propositivo a livello globale, che può rivelarsi l’unica vera strada per un rilancio europeo, altrimenti condannato alla marginalità in questo mondo in rapida trasformazione.

Proprio da Addis Abeba e da Trieste emerge chiaramente come un nuovo rapporto di cooperazione educativa e scientifica con l’Africa rappresenti oggi per l’Europa - ma io ritengo soprattutto per l’Italia- la via maestra per una crescita per rendere attuabile quello sviluppo duraturo, aperto e rigenerante evocato dal Rapporto Draghi, uno sviluppo basato sulla capacità di rispondere in termini produttivi ai nuovi bisogni emergenti sia nel Nord che nel Sud del Mondo, ristabilendo quei rapporti di pace necessari per una vera sostenibilità del cambiamento strutturale.

Per dare corpo e prospettiva a questa strategia è però necessario ed urgente che l’Unione Europea- ed in tutta Europa ed in particolare in Italia- si torni a considerare l’educazione e la ricerca come le nostre principali opzioni strategiche, come “l’arma più potente per ridare a noi stessi sviluppo e dignità”, in questa fase in cui di fronte al rischio tangibile del progressivo espandersi della guerra bisogna ristabilire una via di pace duratura e di uno sviluppo equo, che proprio l’esperienza europea ha dimostrato essere le chiavi della stabilità e della crescita. L’Unione Europea deve uscire da questa fase di stallo e riproporsi a livello internazionale come punto di riferimento, in particolare per l’Africa, evitando di ritrovarsi, sia economicamente che politicamente, ai margini del nuovo mondo, che si sta ridisegnando ai nostri confini.

XXIX Conferenza ONU su Cambiamento Climatico, Baku’, Azerbaijan

Lo scorso 11 novembre si è svolta a Baku’ la Conferenza mondiale sul clima, denominata Cop29, a cui ho partecipato con un intervento a distanza.

Questa nuova Conferenza mondiale sul clima si è Per un verso alluvioni e disastri climatici sempre più frequenti e devastanti rendono evidente che il cambiamento climatico è già oggi ben avanzato a livello globale, Trump fin da subito ha sostenuto a spada tratta le più insostenibili tesi negazioniste, annunciando di uscire ancora una volta dagli Accordi di Parigi. Così mentre si moltiplicano i disastri gli Stati Uniti annullando di fatto l’iniziativa di contrasto ad un fenomeno globale, di cui loro stessi sono tra le principali cause.

Questa iniziativa globale per contrastare il cambiamento climatico del pianeta risale al 1979, quando, oltre 40 anni fa, si riunì a Ginevra la prima conferenza mondiale sul clima. Già allora si considerava che la situazione mondiale fosse insostenibile e che senza interventi concertati e di lungo periodo per contrastarlo, il fenomeno del riscaldamento della Terra avrebbe portato inevitabilmente alla estremizzazione di eventi climatici.

Dopo diversi tentativi nel 1995 a Berlino si riunì la prima Conferenza delle Parti- questo vuol dire COP “Conference of Parties”- che adottò la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico. A questa Conferenza ne seguirono altre, con alti punti di convergenza, a Kyoto nel 1997 ed appunto a Parigi nel 2015 dove 196 Paesi firmarono l’Accordo per tenere sotto controllo l’aumento del riscaldamento terrestre, impegnando i governi a assumere piani nazionali per raggiungere la neutralità climatica. Gli Stati Uniti di Barack Obama avevano firmato gli accordi di Parigi nel 2016, ma vi erano usciti nel 2020 con Trump I°, per rientrarvi nel 2021 con Biden, ed ora uscirne ancora con Trump II°.

Oltre che dagli interessi dai suoi vecchi sostenitori (e vedremo presto quanto in contrasto con i suoi nuovi sostenitori) e da un ossessivo bisogno di rivincita, Trump II° vuole smantellare ogni istanza multilaterale, dalle Nazioni Unite, alla stessa Nato, all’Unesco- dove erano rientrati nel 2023, dopo l’uscita voluta da Trump I°- per affermare gli Stati Uniti come unico soggetto centrale in una strategia di relazioni bilaterali, essenzialmente di sudditanza, politica, tecnologica, militare.

Questa foga sovranista vede Trump deciso a smantellare infine la stessa Unione Europea, aperta e democratica, per sostituirvi rapporti con singoli governi allineati alle sue posizioni oltranziste ed autoritarie. D’altra parte si ricordi, e lo ricordino i sovranisti da questa parte dell’Atlantico, che l’Europa l’area del mondo ove è più alto il rischio climatico, ed in particolare, come abbiamo visto a nostre spese, proprio i paesi del Sud, sprofondati in un Mar Mediterraneo ribollente, dove convergono le tensioni climatiche più estreme.

Come ha scritto Draghi nel suo Rapporto, la crescita europea è legata proprio alle sue politiche di decarbonizzazione e digitalizzazione, cosicché l’interesse europeo sta proprio nel portare avanti la richiesta di andare avanti con gli Accordi di Parigi, opponendosi unitamente alla posizione di Trump I° e II°.

Se l’Unione Europea sarà assente, sempre impegnata, o meglio distratta nei suoi equilibri interni, ed i paesi europei si presenteranno divisi e dubbiosi, la COP29 sarà l’attestazione che lo slogan trumpiano-muskiano “Make America Great Again” sarà a spese dell’Europa, ed in particolare proprio dei paesi dell’Europa Mediterranea, ma ancora una volta, come ci è stato chiesto più volte in queste settimane, da Addis Abeba a Pechino, la domanda vera è “ma l’Europa dov’è?”.

Di fronte a questa prospettiva, che vedrà anche in Italia molti all’inseguimento dell’estremismo trumpiano, noi rimaniamo fedeli ai valori dell’Unesco, in cui cultura, ricerca ed educazione debbono essere veicoli di pace e sviluppo sostenibile, così come ai fondamenti democratici della nostra Costituzione Repubblicana, che ci ricorda che i diritti inviolabili delle persone vanno sempre coniugati con il dovere inderogabile alla solidarietà, ora nel nostro comune futuro.

Incontro Accademie delle Scienze Italia-Cina, Pechino, Cina

Alla vigilia dell’arrivo del Presidente Mattarella in Cina, il 28-31 ottobre a Pechino l’Accademia delle Scienze Sociali ha organizzato una riunione a porte chiuse fra un ristretto numero di economisti italiani e accademici cinesi sulla cooperazione Cina-Italia nel contesto del 20° anniversario dell’istituzione del Partenariato strategico globale, a cui ho partecipato, portando il saluto della Accademia nazionale dei Lincei.

Occasione questa in realtà per fare il punto su una economia mondiale in panne e contestualmente su un’Europa che appare oggi incapace di esprimere una linea chiara sul suo futuro e sul futuro dell’economia mondiale.

L’economia cinese si sta trasformando profondamente, per andare oltre quel modello export-led, che ha garantito gli eccezionali ritmi di crescita fin dall’entrata della Repubblica Popolare nel World Trade Organization nel dicembre 2001. Questa crescita, senza precedenti, è stata dovuta da una parte all’attrazione di capitali stranieri per produzioni di “buona qualità“ da re-esportare, e d’altra parte ad una manodopera “ben qualificata”, ma disponibile a costi ben inferiori ai paesi occidentali.

Dopo la crisi globale del 2008, che del resto ha visto l’arenarsi dell’economia europea in un up-and-down, da cui non sembra poter evadere, la Cina ha avviato una vasta azione politica, che ha portato per un verso alla creazione e consolidamento di una classe media, che avrebbe dovuto sostenere l’economia cinese verso un modello demand-push- cioè trainato da una crescente domanda interna. D’altra parte il nuovo indirizzo della politica cinese era volto a spingere le esportazioni verso più alti livelli di qualità, centrati su più investimenti in ricerca e produzione nei settori high-tech della decarbonizzazione e della digitalizzazione, che sono del resto i due pilastri del Rapporto.

Questo disegno ha trovato in verità il proprio limite nella fragilità di questa nuova classe media che, di fronte all’incertezza che si sta tuttora accumulando, tende più a risparmiare che a consumare, mettendo in difficoltà una riorganizzazione interna volta a consolidare la domanda interna per rendere il Paese più indipendente dalle dinamiche globali.

Del resto la penetrazione delle produzioni cinesi si sta scontrando con la forte spinta a destra dell’opinione pubblica europea, oltre che americana, che sta richiedendo sempre più protezionismo contro le importazioni cinesi e nel contempo blocchi ai flussi dei migranti, nonostante la caduta demografica che entro il 2050 renderà per l’intera Europa insostenibili sia i livelli di attività produttive, sia i livelli pensionistici.

L’iniziativa del governo cinese verso i Brics , e più in generale verso il Sud del Mondo, parte dunque dal bisogno della Repubblica Popolare di riposizionarsi a livello globale proprio nella evidente chiusura dell’Occidente e l’irrilevanza in particolare dell’Europa, affermando una propria leadership in circuiti alternativi ed in crescita rispetto ai mercati già sviluppati.

In questo quadro la posizione europea ed in particolare italiana divengono centrali. Il Rapporto Draghi evidenzia una linea di rilancio molto chiara, incentrata su politica di massiccio investimento in ricerca ed alta educazione in particolare proprio su decarbonizzazione, che significa l’intera area dell’economia green, e la digitalizzazione, che significa anche la definizione di nuovi servizi per una popolazione sempre più matura.

Tuttavia la posizione europea appare del tutto fragile ed incerta, sballottata fra posizioni nazionali, di volta in volta, spremute su spinte interne difficilmente prevedibili. La stessa posizione italiana appare scarsamente affidabile nel lungo periodo; è stata certamente apprezzata la visita della Presidente Meloni, ma nel contempo si è rilevato che l’Italia, diversamente della Germania, ha votato a favore dell’aumento dei dazi alle importazioni di auto elettriche, prodotto di punta dell’industria cinese e portatrice delle tecnologie sulla decarbonizzazione su cui la Cina propone collaborazioni di lungo periodo con un’Unione Europea, che però non sembra in grado di impegnarsi in una negoziazione di lungo periodo.

La visita del Presidente Mattarella, che gode in Cina di una vasta stima, ha proposto una visione della situazione e delle prospettive europee che vanno al di là dei difficilmente comprensibili equilibrismi di Bruxelles, rilanciando il ruolo delle università e della cultura come necessari luoghi di dialogo fra Occidente ed Oriente per ricostruire quei. Percorsi di pace che sembrano essere dispersi in questi ultimi anni.


Patrizio Bianchi