Un ricordo di Ferdinando Taviani
Qualcuno mi pare li avesse definiti i “tre moschettieri” della storiografia teatrale, anche se in realtà erano quattro, come gli autentici di Dumas: Fabrizio Cruciani, Claudio Meldolesi, Ferdinando Taviani (con il quarto, il più anziano ancorché di poco, Ferruccio Marotti). Allievi di quel Giovanni Macchia la cui lezione alla Sapienza di Roma, da acuto francesista e storico del teatro, li aveva formati dando avvio a quella vera e propria rivoluzione storiografica che, dalla metà degli anni Sessanta del ‘900, ha letteralmente fondato la “storia del teatro” nell’università, ma ancor più nella cultura italiana, grazie al loro apporto. I primi due se ne sono andati troppo presto, Fabrizio Cruciani addirittura appena cinquantenne nel 1992 e Meldolesi nel 2009. Ora ci lascia il terzo, Ferdinando Taviani, ma per tutti soltanto Nando.
La “scuola romana”, come è preferibile definirla, trapiantata al Dams di Bologna agli inizi degli anni Settanta, con Cruciani prima, poi Marotti (per un breve periodo) e Meldolesi. La scuola che ho felicemente incontrato e grazie alla quale ho ricevuto una solida base formativa, condividendone metodo, argomenti, lezioni, discussioni e, perché no, anche dissensi. Taviani no, non fu della partita bolognese, avviando invece la sua carriera accademica a Lecce e poi, da ordinario, all’Università dell’Aquila. Però era presente sempre, se non fisicamente, tranne fortunate incursioni, con i suoi studi, le sue idee, la sua “eccentricità” di pensiero (e di abbigliamento). Capitava di incontrarlo alle riunioni di redazione della rivista “Teatro e Storia” nella sede del Mulino o a qualche rassegna o festival di teatro. Era capitato di vederlo nello studio di Roma dove i tre (più uno) “moschettieri” avevano riunito in un unico appartamento le rispettive biblioteche, facendone anche la prima redazione della rivista “Biblioteca Teatrale” che nel 1971 avviò la sua pubblicazione. Ma non era un semplice studio di “studiosi riuniti”, era un “covo”, un “luogo” dall’atmosfera particolare, una fucina di idee, riflessioni, scambi, progetti. Solo ragionando insieme e confrontandosi con gli altri, diceva Nando, si cresce e si produce: “in un giorno di vengono mille idee, di cui una sola è valida mentre tutte le altre sono sciocchezze [in realtà il termine era altro!], se non le scambi e le discuti come fai a capire su quale vale la pena di insistere?”.
In quello spazio si creava non solo la rivista ma là, seppi poi, era nato uno straordinario progetto di Storia documentaria del teatro italiano in diversi volumi per Il saggiatore di Milano. Una pubblicazione che non vide la luce per il fallimento o qualcosa di simile dell’editore, ma che divenne miniera e officina dei successivi volumi e saggi dei tre (più uno). “Documentaria”, insisto, perché quella è stata – ed è – la grande lezione: la fonte, il documento, non studiati a vanvera ma con metodo e rigore. Lo stesso rigore che tutto il gruppo, nella docenza universitaria, richiedeva, anzi pretendeva, dagli allievi, da semplici studenti e ancor più laureandi. Non parlare per dare fiato alla gola, non scrivere prima di avere verificato e confrontato.
Da lì sono nati gli esemplari (e ancora oggi punti di riferimento fondamentali) studi di Nando sulla Commedia dell’Arte: prima l’edizione della Supplica dell’attore Nicolò Barbieri, in arte Beltrame, per i tipi del Polifilo di Milano, con uno studio critico, note e varianti che andrebbero imposti allo studio ancora oggi; poi l’edizione altrettanto documentaria che passa sotto il titolo diLa fascinazione del teatro, per la serie dell’editore BulzoniLa commedia dell’arte e la società barocca (proseguita poi con La professione del teatro di Ferruccio Marotti e Giovanna Romei); sullo stesso filone Il segreto della commedia dell'arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII e XVIII secolo , scritto da Taviani con Mirella Schino, che fin dal suo apparire apriva la strada non solo a un nuovo sguardo storiografico sul fenomeno detto Commedia dell’Arte ma ci insegnava a osservare il teatro nella sua materialità, lungi da ogni idealismo o estetismo, sia nel passato ma anche nel presente. Sì, perché Nando, studioso anche dell’Ottocento, di Pirandello e altro ancora, è stato anche come si usa dire uno storico “militante”, uno di coloro che si “sporcano” le mani toccando gli attori e il loro mestiere. Da qui nasce il rapporto con Eugenio Barba e con l’Odin Teatret, di cui Nando è stato in qualche modo scopritore in Italia (ma non solo) e soprattutto consulente/consigliere e dramaturg. L’invenzione dell’ISTA, ovvero International School of Theatre Anthropology, fondata nel 1979. Altra intuizione straordinaria: il teatro non lo puoi capire nel suo divenire storico se in qualsiasi momento non lo vivi dall’interno e non ci impasti le mani. Da qui nasce l’altro contributo fondamentale: Il libro dell’Odin. Il teatro-laboratorio di Eugenio Barba, del 1975, non la “storia” di un gruppo di teatro ma il suo interrogarlo, nel presente, raccogliendo materiali e testimonianze.
Uno studioso geniale, come si usa dire, ma soprattutto eccentrico, Ferdinando Taviani. In tutto e per tutto: nella vita e nelle abitudini, nelle idee e negli studi. Eccentrico nel significato etimologico di “fuori dal centro”: uno sguardo sempre spiazzante il suo perché in grado di percepire, vedere e restituire le cose diversamente da ogni interlocutore, che si parlasse di comuni fatti della vita o soprattutto di ricerche e studi. Una capacità di vedere diversamente che poteva fare anche venire rabbia (perché lui lo vede e io no?), ma soprattutto illuminante quando ti accingevi a mettere mano sui documenti, con la certezza per altro di potere cogliere sino in fondo ciò che Nando scorgeva. Ma l’invito era, e rimane, sempre lo stesso: mettiti fuori dal centro, in disparte, nella periferia e osserverai comunque diversamente. Così come le microsocietà delle compagnie dell’Arte nel passato o i gruppi cosiddetti poi (erroneamente) di Terzo Teatro nel presente facevano.
Un invito anche all’eccentricità storiografica per distaccarsi dalla “normalità” degli studi che, per quanto riguarda il teatro, oltretutto non era nemmeno “regolarità” di “storia del teatro” in quanto disciplina autonoma e con statui e fondamenti specifici – in quei presupposti di ultimo trentennio del XX secolo – ma branca o sottobranca di qualche letteratura.
Persona brillante soprattutto, Nando, il Professor Ferdinando Taviani. Una brillantezza che faceva un tutt’uno con l’eccentricità del pensiero, e non poteva essere che così. Uno stile nel discorso (per chi ha avuto la ventura di assistere a sue lezioni o conferenze o relazioni ai convegni) e nella scrittura: rigoroso sì, da filosofo dal metodo accurato direi, non certo divulgativo, ma con la dote, il sale, della “brillantezza”. Le parole da oggi non potremo più udirle, ma la brillantezza, la genialità, la sorpresa che ci accompagna pagina dopo pagina nei suoi libri restano: una “fascinazione” storiografica, rubando la definizione alla straordinaria intuizione di Nando per cercare di carpire il segreto dei comici antichi, detti dell’arte.
Daniele Seragnoli