L'assolutismo: progetto e realtà
Un fantasma si aggira per i libri di storia moderna: l'assolutismo, in particolare quello francese.
Una premessa fondamentale: l'assolutismo non va confuso con il dispotismo. Nell'Europa occidentale dell'età moderna il dispotismo, cioè la potestà di comando arbitrario e senza limiti del sovrano, veniva attribuito al mondo orientale. L'imperatore della Cina, il Gran Mogol, il khan dei tartari, il sultano ottomano erano despoti. I re della Cristianità potevano rivendicare un potere "assoluto", cioè non vincolato dalle leggi ordinarie, ma non dispotico. Tanto la legge divina quanto la legge di natura non potevano essere assoggettate all'arbitrio del sovrano. Inoltre ovunque, dove più e dove meno forti, esistevano istituzioni che limitavano il potere del monarca: assemblee rappresentative degli "stati" (nobiltà, clero, città; in Scandinavia anche i contadini, cioè i coltivatori diretti più agiati) e corti di giustizia depositarie delle consuetudini del regno, come i Parlements in Francia.
Queste istituzioni rappresentative, fiorite nel corso del Medioevo, all'inizio dell'età moderna erano ovunque in ritirata di fronte alla spinta dei monarchi a centralizzare l'autorità, con l'apporto ideologico di un ceto di giuristi di corte che elaboravano teorie tendenti a sostenere il diritto divino dei sovrani.
L'Inghilterra faceva eccezione in questo quadro, in quanto il Parlamento (Lord e Comuni) venne utilizzato dalla monarchia per dare sostegno allo scisma da Roma e poi seguitò a rafforzarsi, giungendo a porsi come un elemento permanente della politica inglese: il re non poteva fare a meno del parlamento né governare contro e senza di esso. Anche se solo alla fine del Seicento, a seguito della rivoluzione del 1688-1689, questo principio venne definitivamente accettato dalla monarchia, anche in precedenza l'Inghilterra aveva seguito sotto questo aspetto un cammino diverso dal resto dell'Europa.
In Francia il processo di centralizzazione andò avanti sotto i successivi monarchi. L'assolutismo regio era stato elaborato come teoria dai giuristi di corte sin dal primo Trecento. Ma questi giuristi e magistrati avevano nel contempo stabilito il ruolo primario delle alte corti di giustizia (Parlements). In Francia metà del territorio era sotto la giurisdizione del parlamento di Parigi, il resto sotto quella di un'altra decina di parlamenti di provincia (a Rennes, a Tolosa, a Aix-en-Provence, a Digione, a Douai, a Rouen, a Grenoble...). I parlamenti francesi NON erano assemblee rappresentative. Erano alti tribunali che svolgevano i compiti di una corte d'appello, di una corte di cassazione, di una corte dei conti e di una corte costituzionale, se vogliamo prendere a confronto le istituzioni contemporanee. Il parlamento di Parigi registrava gli editti regi, inclusi quelli fiscali, e poteva rifiutarsi di farlo agendo a difesa delle consuetudini e degli interessi generali del regno. Il re poteva costringerlo con una cerimonia particolare detta "letto di giustizia" (lit de justice), in seguito alla quale il parlamento registrava con riserva. Ma restava ai magistrati l'arma dello sciopero, cioè dell'interruzione dell'attività giudiziaria. E restava al re l'arma dell'esilio inflitto ai parlamentari ribelli. I parlamentari erano nobili, costituivano quella che veniva definita la "Nobiltà di toga"; erano proprietari delle loro cariche e costituivano pertanto un settore del ceto dirigente; in quanto nobili godevano dei privilegi del rango, inclusi quelli fiscali. Nel contempo si presentavano come portavoce e interpreti degli interessi generali del popolo, come difensori della "antica costituzione del regno", cioè di un insieme di consuetudini stratificatosi nel corso del Medioevo e del Cinquecento.
In Francia esistevano gli Stati: Stati provinciali, cioè assemblee di rappresentanti di clero, nobiltà e terzo stato (borghesia e proprietari terrieri non nobili) in ciascuna provincia; Stati Generali: cioè lo stesso genere di assemblea ma convocato da re in rappresentanza di tutto il regno.
Gli Stati provinciali contavano poco; quelli Generali vennero convocati a più riprese nel Quattro-Cinquecento e un'ultima volta nel 1614, poi la monarchia non li convocò più. Questo era un segno di forza: il re faceva a meno di consultare un'assemblea rappresentativa e governava di propria iniziativa. Ma in questo modo erano i parlamenti, e soprattutto quello di Parigi, ad assumere il ruolo di rappresentanti della nazione. Ruolo contraddittorio, perché erano essi stessi parte in causa, in quanto componente di un ceto privilegiato, la nobiltà. E a metà Seicento, con la Fronda, il Parlamento di Parigi sfidò l'autorità di Mazzarino e della reggente Anna d'Austria. Fu sconfitto e privato in due tempi del potere di rimostranza. Quindi Luigi XIV poté effettivamente governare senza opposizione (o quasi senza opposizione) dei parlamenti. In questo senso egli fu davvero un monarca assoluto. Ma il suo fu un successo transitorio ed effimero. Alla sua morte nel 1715 il nuovo reggente, Filippo d'Orléans, restituì ai parlamenti il potere di rimostranza ottenendo in cambio addirittura di cassare il testamento del re defunto.
Il periodo compreso tra la morte del Re Sole, 1715, e lo scoppio della rivoluzione, 1789, fu perciò caratterizzato in Francia da una continua tensione strisciante, e a più riprese da un conflitto aperto, tra il re e i suoi ministri e i parlamenti. Di fatto il parlamento di Parigi divenne nel corso del secolo un effettivo centro di opposizione alla monarchia vanificando la prassi se non l'ideale dell'assolutismo.
A raggiungere lo scopo di governare assolutisticamente furono piuttosto altri sovrani in Europa, che non solo imitarono i re di Francia, ma andarono oltre i loro risultati. Il re di Portogallo, quello di Danimarca, per un certo periodo quello di Svezia, il duca di Savoia e poi re di Sardegna, i maggiori principi tedeschi furono monarchi assai più assoluti che non i Borboni di Francia.